Il racconto di Riccardo, di ritorno dal viaggio 2018

La Palestina non esiste, o forse è meglio dire che la Palestina non esiste più. Una terra fertile, che per secoli ha visto culture incrociarsi, mescolarsi e contaminarsi. Una terra affacciata sul Mediterraneo, che del nostro mare e delle nostre terre contribuiva a far crescere la storia. Una terra carica di memorie, di tradizioni, di vita.
Filastin, i nonni se la ricordano ancora, loro che chiamavano il mare “la sposa della Palestina”, loro che hanno raccontato a figli e nipoti quello che c’è stato…quello che non c’è più. Una generazione che sta per scomparire e nessuno potrà più dire a quei ragazzi di come si viveva bene a Gerusalemme e com’erano profumate le arance di Giaffa.
Una terra violata, violentata, occupata, un popolo soffocato, prevaricato, privato di dignità, di libertà di movimento, di terra e di acqua.
Qual è il limite, qual è il confine, quando siamo arrivati a tutto ciò? Come abbiamo fatto a non accorgercene? Come possiamo continuare a permetterlo? Quali le nostre responsabilità? Sono tantissime domande che ora che il viaggio volge al termine mi tormentano, non trovano sfogo.
Sono stati giorni di incontri, intensi, drammatici, storie raccolte giorno per giorno insieme ai miei compagni di viaggio e che come tanti tasselli di un puzzle sono andati a costruire un quadro da una parte desolante per quanta sofferenza può generare uno stato di occupazione, ma nello stesso tempo incontri illuminanti di come si possa e si debba resistere a questa occupazione, di quanta bellezza alberga nell’animo delle persone e quanta forza si sprigiona quando si resta coesi, quando ci si ricorda quali siano le proprie radici.
Sento forte la responsabilità di raccontare le loro storie, non mi interessa ora parlare di politica, mi interessa tornare alla conoscenza reciproca. Conoscere l’altro è sempre stata la base dei miei viaggi, e mai come in questo caso ho vissuto forti le contraddizioni e le storture che la mancata conoscenza e la propaganda hanno generato negli anni.
Muri e checkpoint che ho dovuto attraversare, filo spinato e trincee che sono prima ancora che oggetti fisici, stati della mente. Il nemico oltre la barriera, il terrorista, colui che ucciderà i miei figli e mi scaccerà dalla mia terra. Un terrore — certamente strumentalizzato ad uso e consumo del potere — che non può che generare altro terrore, brutture, orribili vessazioni e umiliazioni.
Un ragazzo fermo ad un checkpoint obbligato a spogliarsi in pubblico per questioni di “sicurezza”, una donna che ha perso il marito perché non è stato permesso all’ambulanza di raggiungere la loro casa, un ragazzo di sedici anni che si ritrova a spendere la sua adolescenza in carcere. Contadini che vivevano del lavoro della terra che non hanno più acqua per i loro campi. Persone che hanno visto la loro casa espropriata o peggio ancora persone che sono state costrette a distruggere la loro casa con le proprie mani per questioni di “sicurezza”.
Sono storie e immagini che ho ascoltato, ho accolto, che devo rielaborare e che dovrò raccontare per non rendere vano quel tempo speso insieme. Per ridare dignità a chi l’ha persa, non per propri demeriti. È difficile, è estremamente doloroso assistere impotenti a questa sistematica violazione dei diritti umani. Com’è possibile che la storia non abbia insegnato niente?
Non riesco a non fare paragoni con la situazione del nostro paese, a come il potere utilizzi la paura del diverso per controllare, per manipolare le coscienze. A come quei poveri cristi che in questi giorni sono bloccati sulle navi nel Mediterraneo, paghino sulla loro pelle delle colpe che non hanno.
Ma torno indietro con la mente e trovo conforto nell’esempio che le persone che ho incontrato mi hanno dato. E cerco in loro un modo per vivere, per lottare. Una resistenza morale e culturale, che dobbiamo portare avanti tutti. Palestinesi, italiani, abitanti del mondo. Oggi più che mai.
Come Rachid, che nella valle del fiume Giordano ormai prosciugata dai pozzi israeliani che sottraggono il bene più prezioso in un territorio così arido, porta aiuto agli abitanti dei villaggi e lotta contro l’esproprio e la distruzione degli accampamenti beduini.
Come Faez, che ha visto distruggere i suoi campi a più riprese e lotta ora all’ombra del muro per una agricoltura sostenibile.
Come Naji che vive in un campo profughi e ha fondato un’associazione di promozione sociale proprio lì dove tutto è precario.
Ripenso agli occhi di Ayam, il nipote di Amar, ripenso ai vecchi che fumano shisha in un logoro bar di Ramallah, ripenso a Nablus, a quanto è bella Nablus con i suoi laboratori di sapone, le sue botteghe, il suo bagno turco ancora perfettamente preservato, la sua vita autenticamente araba, la sua gente.
Ripenso a Ali che è diventato padre proprio quando eravamo lì, a quanta incertezza deve portare con sé e forse un po’ di paura.
Ripenso a Dehisha, il campo profughi che ci ha accolto negli ultimi giorni di viaggio, alla sensazione di precarietà del vivere in un luogo che dev’essere per definizione temporaneo e che invece sta lì da quasi settant’anni. Con i suoi problemi, con le taniche di acqua sul tetto, con l’immondizia ammucchiata per le strade. Ma con la sua gente, che ci si conosce tutti e ci si aiuta. Che quando di notte entrano i militari e sparano gas lacrimogeno nelle case, si scende tutti per strada, anche quando uccidono uno dei tuoi figli che ha solo tredici anni.
Ai suonatori di oud e ai danzatori di dabhka, alle tradizioni, alle case non finite che ci si mette sul tetto e si guarda il cielo che quello non ce lo può togliere nessuno. Ai discorsi notturni, ai miei compagni di viaggio, senza i quali tutto ciò non avrebbe avuto senso perché condividere e ascoltare è il primo passo per comprendere.
Al coraggio di saper guardare oltre i muri, quelli fisici e quelli mentali.
La Palestina non esiste. Ma io l’ho vista, ed è bellissima…
[La versione originale di questo racconto, corredata di fotografie, è stata pubblicata su Medium]