C’è una parola, un po’ bizzarra, che è ormai diventata di uso comune: “serendipità”. Qualcuno ha provato a spiegarla così: serendipità è cercare un ago nel pagliaio e trovarci la figlia del fattore. Una definizione che ha, se non altro, il merito di sottolineare il carattere casuale, fortuito, della scoperta.

Per chi, come me, mai avrebbe pensato di recitare nella vita, l’incontro con il Teatro dell’Oppresso è avvenuto indubbiamente sotto il segno della serendipità. Ha significato scoprire, in modo del tutto casuale, la gioia di calarmi nei panni di qualcun altro. Qualcuno che non sono e che, spero, non sarò mai nella vita.

Ma, intanto, cos’è il Teatro dell’Oppresso?

 

ATTENZIONE

momento spiegone: chi sapesse già la risposta può tranquillamente saltare al prossimo capoverso

 

Nato nel Brasile della dittatura, il Teatro dell’Oppresso è uno strumento di educazione popolare. Mettendo al centro della rappresentazione dinamiche di conflitto, mira a sviluppare collettivamente strategie per superare l’oppressione. Fondamentale, da un punto di vista metodologico, è l’interazione del pubblico. La scena teatrale non è un evento che lo spettatore vive passivamente, ma uno spazio attraversabile in cui il confine tra pubblico e attori tende a stemperarsi.

 

Fine dello spiegone

 

Dicevo che recitare è stata l’occasione per scoprire come calarmi nei panni di qualcun altro. La questione è importante. Recitare infatti non significa fingere di essere qualcuno. Se così fosse, il rischio di “farne la caricatura” sarebbe altissimo. Recitare significa piuttosto interpretare un ruolo, essere il personaggio. Il che, naturalmente, vuol dire anche costruire il personaggio, lavorare per dare profondità alla maschera che si indossa. Nel mio caso, la maschera era quella di un professore svogliato e demotivato, come purtroppo se ne incontrano tanti nelle scuole. Ma procediamo con ordine.

Venerdì 9 settembre, “Scuola Sconfinata” – un’iniziativa promossa due anni fa dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli di Milano con il movimento “E tu da che parte stai?”, per progettare un nuovo modo di insegnare a scuola – ha organizzato una giornata di lavori. “Casa per la Pace” è stata invitata per rappresentare uno spettacolo a tema.

In tre scene, di cui una introduttiva, abbiamo così raccontato la storia di una professoressa, giovane ed entusiasta, che inizia finalmente a insegnare. Gli ostacoli che si frappongono lungo il suo percorso appaiono però insormontabili: precarietà, burocrazia, conservatorismo, ossessione per il programma… E, come se non bastasse, l’atteggiamento paternalistico e scostante dei colleghi che dall’alto della loro esperienza, si fa per dire, sembrano fare di tutto per disilluderla. C’è la professoressa vecchio stile, per cui l’insegnamento è innanzitutto ordine-e-disciplina. La collega schiacciata dall’ansia della mancanza di tempo. E infine il mio personaggio, il professore svogliato e disilluso. Personaggi che diventeranno nella parte finale dello spettacolo il vero motore del racconto, sabotando ogni tentativo di trasformazione della scuola.

Ora, la potenza del Teatro dell’Oppresso sta in questo. Che queste tre figure non sono l’incarnazione del “male”, personaggi negativi unicamente da biasimare. Sono, come siamo tutti noi d’altronde, delle contraddizioni viventi: al tempo stesso oppressori e oppressi, schiacciati dal peso di una vita routinaria vissuta all’interno un sistema burocratico che spoglia di poesia ogni attività spirituale, qualsiasi sia il senso che diamo a quest’aggettivo. È la barca dell’amore che si è spezzata contro il quotidiano, per citare il Majakovskij della sua ultima lettera.

Proprio l’ambiguità del personaggio è ciò che permette, da un lato, al pubblico di identificarsi e intervenire sul palco, apportando modifiche alla storia, suggerendo e costruendo nuove situazioni, e dall’altro all’attore di indagare e scavare dentro il personaggio da mettere in scena, che poi significa anche scavare dentro di sé.

Ed è proprio in questo lavoro che l’emozione e la bellezza della recitazione emergono. Perché non si tratta di imparare un copione a memoria da ripetere pappagallescamente mille volte, fino a quando tutte le parole non si sono impresse a fuoco nel cervello (un po’ come ci veniva chiesto di fare a scuola con le poesie…). Ma piuttosto la tensione verso qualcosa di nuovo, che deve ancora vedere la luce e che l’attore – anzi: il gruppo di attori e attrici insieme al pubblico – riesce a creare.

Un lavoro, insomma, che dà senso alla parola “storia”, che è quella che usiamo quando vogliamo narrare qualcosa: un lavoro di ricerca.